«Il dare giustizia è realizzazione di sé,
è preghiera, è dedizione di sé a Dio»

«La Bibbia è lo scrigno dove è racchiuso il gioiello più prezioso che esista: la Parola di Dio». Così scrive in prima liceo un giovanissimo Rosario Livatino, che il 21 settembre 1990 verrà assassinato dalla mafia in Sicilia.
La Parola di Dio può spingere un uomo a rischiare la vita, là dove altri indietreggerebbero? Non è una domanda retorica e cercheremo di rispondervi leggendo la trama della vita di questo giovane cristiano. Rosario viene assassinato per il suo impegno di magistrato. In quella frontiera della legalità che è la provincia di Agrigento, in cui lo Stato e l’antistato hanno convissuto per decenni pacificamente, egli esercita la sua funzione di Pubblico ministero come se fosse una vera e propria missione. È un servitore dello Stato che percepisce la sua opera al servizio delle istituzioni come parte integrante della sua vocazione cristiana.
Livatino nasce il 3 ottobre 1952, è dunque un uomo che vive la sua giovinezza all’indomani del Vaticano II. La sua etica ha profonde radici bibliche e si nutre di una visione della Chiesa che non è in antitesi con lo Stato, ma concorre con quello, nella sua particolare sfera, per la realizzazione del bene comune. Livatino è un cattolico di Paolo VI, uno dei grandi Pontefici del Novecento, che avrebbe portato a termine il Concilio voluto da Giovanni XXIII. Il 14 novembre 1964, durante una concelebrazione a San Pietro, Papa Montini si toglie la tiara e la depone sull’altare, quale offerta ai poveri e per simboleggiare una Chiesa che si spoglia del potere temporale.
Il rapporto con i poveri in Livatino è discreto, ma costante: «Ogni mese, in segreto, consegnava una somma di denaro a persone che vivevano in uno stato d’indigenza, e lui lo sapeva; puntuale e sempre in incognito, faceva pure la spesa per alcuni di essi, soccorrendo alle loro prime necessità».
Il futuro magistrato vive una profonda affinità spirituale con Papa Montini, tanto da scrivere il 12 agosto 1978 sul suo diario: «Oggi seppelliranno Papa Paolo. Addio, Papa Paolo, tu ti porti via un’altra fetta della mia giovinezza…».
Rosario ha allora poco più di venticinque anni. Appena un mese prima, il 18 luglio del 1978, ha vinto il concorso in magistratura. Diventa uno di quei “giudici ragazzini”, secondo l’espressione resa celebre dall’allora Presidente della Repubblica Cossiga, che lo Stato manda in prima linea contro quella che rappresenta l’organizzazione criminale più agguerrita dell’Occidente. Come Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento, Livatino conduce alcune delle inchieste più difficili che si siano svolte su quel territorio. Rimane celebre l’interrogatorio al potente politico democristiano Calogero Mannino. Rosario può affrontare tutto questo a testa alta perché, nel suo caso, l’indipendenza del giudice dal potere politico è un valore che non conosce eccezioni; questa libertà, insieme alla sua totale autonomia di giudizio, gli consentono di muoversi con una serenità di giudizio che ad altri è preclusa, in un ambiente che fa di tutto per legarti in una rete di favori e di clientele tesa a perpetuare privilegi e impunità.

Livatino scrive lucidamente nel 1984, in una relazione tenuta davanti al Rotary: «Si è bene detto che il giudice, oltre che essere, deve anche apparire indipendente […]. L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità a iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia a ogni desiderio di incarichi e prebende».
Nell’agrigentino Cosa nostra ha una secolare presenza, ma è molto forte anche l’altra mafia, la Stidda, cioè la stella, una costellazione di bande criminali, spesso suscitate da fuoriusciti di Cosa nostra e che utilizzano per i loro scopi killer giovanissimi, quasi adolescenti, e disposti a tutto, capaci in un primo momento di mettere in crisi i vecchi patriarchi mafiosi.
Gli stessi assassini di Livatino sono uomini della Stidda assoldati in Germania, pendolari del crimine organizzato originari di Palma di Montechiaro, il cui clan intendeva colpire il giudice per le sue inchieste sempre più pericolose.
Il giovane giudice è pienamente consapevole dei rischi che corre e del pericolo che incombe su di lui, ma sceglie di porsi S.T.D. Sub Tutela Dei, sotto la protezione di Dio, è la sigla posta in epigrafe alla sua agenda, nella quale annota i momenti salienti della sua quotidianità, ma anche le crisi, le svolte interiori, le decisioni significative. Il 31 dicembre 1985 scrive amareggiato: «Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?». Sei mesi dopo, la prova interiore sembra finalmente superata: «Oggi, dopo due anni, mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori…». I genitori di Rosario Livatino, dopo aver trasmesso al figlio l’amore per la preghiera e la moralità di un ceto borghese di altri tempi, avranno un ruolo importante anche dopo la morte del figlio.

Nel maggio 1993 Giovanni Paolo II, nella Valle dei Templi di Agrigento, si rivolge ai mafiosi: «Convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio». Prima di questo storico discorso il Papa ha incontrato proprio gli anziani genitori del giudice Livatino.
Ricordo questo episodio perché mi sembra che vi sia qui qualcosa di decisivo. L’incontro con due anziani che soffrono per il loro giovane figlio, genera uno dei momenti di svolta vissuti dalla Chiesa nella sua secolare presenza nel meridione d’Italia, anche grazie all’intuizione profetica di Wojtyla. I momenti importanti della vita della Chiesa non vengono decisi a tavolino, nei salotti riservati agli intellettuali o nel chiuso delle accademie. La Chiesa non nasce in un laboratorio.
La Chiesa nasce ai piedi della croce. E rinasce, ripensa se stessa, le sue scelte, la sua vita interna e la sua pastorale, nell’incontro con la sofferenza degli uomini e delle donne. La Chiesa nasce dal sangue di testimoni come Rosario Livatino.

(di Vincenzo Ceruso, scrittore – SE VUOI 5/2014)